Lusso è una delle parole più abusate degli ultimi anni: nel 2019 quasi il 40% del made in Italy ha esibito questa etichetta, senza però un riferimento costante all’eccellenza della manifattura italiana.
Sebbene il suo significato etimologico (lat. luxus «sovrabbondanza, eccesso nel modo di vivere») sia ugualmente riferito al superfluo, a un eccesso del prezzo rispetto al valore d’uso, il suo impiego ci appare ormai irrimediabilmente lontano dalle caratteristiche tipiche di raffinata fattura e pregio delle materie prime impiegate, un tempo espressione di un’evidenza sociale capace di comprendere la qualità e il valore anche culturale di certe scelte.
Negli anni della cosiddetta “democratizzazione del lusso”, l’ascesa del low cost e del fast fashion hanno spostato il campo semantico del cosiddetto “lusso” dalla manifattura di qualità a quella a basso, bassissimo costo (e più basso valore). Un lusso di mera apparenza, legato a un immaginario dopato dal marketing, utile solo ad affermare uno status sociale da parvenu, privo di gusto e di anima.
La durevolezza, ad esempio, da sempre qualità connotativa del bene di lusso (che infatti era “patrimonio” da lasciare in eredità alla figliolanza) è stata progressivamente soppiantata da un’apparenza bugiarda di oggetti, capi effimeri, spesso banali e qualche volta addirittura volgari nell’ansia di “nuovo” a tutti i costi. Proposte incessanti, realizzate in modo colpevolmente approssimativo, generalmente da materie prime di dubbia provenienza e qualità, nonché da maestranze sfruttate nei paesi più poveri.
Un lusso d’accatto, insomma, accessibile alle masse ma fasullo, effimero innanzitutto perché fatto male, e poi perché senz’anima e senza fantasia. Si è detto tanto negli ultimi mesi della opportunità offerta dallo shock del Covid19 di ripensare il presente e il futuro, di restituire senso e valore alle parole.
Lusso tornerà a significare qualità, ricerca, autenticità, bellezza come un tempo?
Il futuro è nelle nostre mani.